Un’emergenza vecchia di trent’anni
Quando entrò in vigore con la legge Lagorio, nel 1985, il Fondo Unico per lo Spettacolo fu salutato con fiumi di champagne da tutte le categorie interessate. Questo, ad esempio, il brindisi dell’allora presidente dell’Agis Franco Bruno al quale – lavorando con lui – partecipai di persona. Ora, allo champagne si sono sostituiti – metaforicamente – gli sputi. Il motivo è semplice. Gli stanziamenti del Fus non hanno seguito di pari passo l’aumento dei costi sostenuti proprio dai suoi beneficiari. Anzi, il Fondo è stato ulteriormente tagliato fino a rendersi praticamente inservibile, inutile. Il perché sta nel fatto che via via che crescevano le spese dello Stato per i bisogni reali della società (somme bene o malgestite, non è questo il momento) lo spettacolo è sempre e, sempre più stato considerato, una ciliegina su una torta che non c’era più. Ergo, inutile comprarla. Mai come oggi, in realtà, questo ragionamento è comprensibile, vista l’enorme crisi mondiale che mette a rischio pane e lavoro, figuriamoci il sostegno a teatri e balletti. E questi sono fatti. Ma c’è un problema, sollevato con motivazioni (non tutte condivisibili, a mio modesto parere) da Alessandro Baricco, che di teatro è un autore ma non un tecnico di mercato. E cioè che la famosa “eccezione culturale” su cui, come un Titanic sempre più inclinato sul baratro, si sono sedute abbastanza comodamente le categorie imprenditoriali che il Fus finanziava, bene, quell’eccezione oggi, con la crisi mondiale che falcia intere generazioni, e forse per sempre, è diventata un alibi. Credo sinceramente che le grida di aiuto totalmente autoreferenziali provenienti da tante categorie dello spettacolo, praticamente già dall’anno dopo la nascita del Fus, non abbiano tenuto conto di un fatto ben visibile fin dall’inizio. Che il Fus, tutt’al più, avrebbe potuto finanziare i costi fissi di base per i primi anni, ma che per tutto il resto (sviluppo, ricerca, creatività, ecc… ovvero compiti primari di qualunque impresa di produzione culturale) si sarebbe dovuto cercare un sostegno economico dentro o fuori il mercato, ma certo non battendo ulteriormente cassa allo Stato. Che quando li aveva, i denari, li ha dati (male e con ritardo, è vero, ma siamo in Italia. E ringraziamo dirigenti come Blandini e Nastasi, perché senza di loro si starebbe molto ma molto peggio) e ora che non li ha più, i denari, è costretto a tagliarli. Se si grida alla chiusura senza ricordarsi che da trent’anni non si fa altro senza investire in nulla ma limitandosi a sopravvivere grazie ai sempre più esigui contributi statali, allora lo spettacolo italiano non sarà stato ucciso dallo Stato bensì, come in tanti altri casi (vedi Alitalia) si sarà suicidato. E non si può parlare di emergenza spettacolo senza considerare che, se tale è, allora è vecchia di almeno trent’anni. Anni in cui chi doveva agire e non parlare, non l’ha fatto, accontentandosi di gridare una volta l’anno ben sapendo che in fondo, non ne aveva poi nemmeno tanto il diritto. Almeno in confronto a chi, licenziato o disoccupato o malpagato, il biglietto di un teatro non può neppure permettersi di sognare di pagarlo. E tantomeno chiedendone il rimborso allo Stato.
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