CHI SI FERMA È PERDUTO
Tra chi pronostica una possibile – auspicabile – alleanza tra le piattaforme pay di Mediaset e Sky (segnatamente in prima linea il franco-tunisino Tarak Ben Ammar) e chi invece, alla luce dell’ultimo affondo della tv satellitare che si è aggiudicata il canale 27 del digitale terrestre per trasmettere in chiaro Sky Tg24, immagina una nuova stagione di scontri tra i due broadcaster in terra italiana, si sono chiuse le danze del 2014 e spalancate le porte del 2015. Un anno che non dovrebbe trascorrere senza che qualcosa di decisivo accada sul fronte della televisione in generale e di quella pay in particolare. Pena lo stallo. Lo stesso su cui il mercato ha navigato a vista nell’ultimo periodo e che non può permettersi di subire ancora a oltranza. Soprattutto a fronte delle grandi manovre a cui assistiamo invece al di fuori dei confini nazionali. Anche perché, neanche a dirlo, il nostro è il territorio più vulnerabile in termini di redditività della tv, sia pay che free. Vuoi per il canone televisivo tra i più bassi del Vecchio Continente, vuoi per il numero di abbonati ai servizi a pagamento decisamente inferiore rispetto alla media e con un trend in inesorabile – seppur lenta – diminuzione, siamo i classici “figli della serva”, malgrado i minuti medi di consumo per individuo siano superiori di oltre mezz’ora rispetto alla Francia, un po’ di meno di mezz’ora relativamente all’Inghilterra e secondi solo agli Usa, che ci superano invece di circa 30 minuti. Come dire: i telespettatori italici hanno voglia di vedere la nostra televisione, ma non hanno a tratti l’intenzione, in altri l’occasione, e in alcuni casi la disponibilità, di pagare per vederli, men che meno gli inserzionisti si sentono di investire di più per acquistarne gli spazi. Cosa comprensibile, visti gli attuali chiari di luna dell’economia. Ma può bastare questo a spiegare la nostra endemica debolezza? La verità è che si tratta di uno status quo strutturale e industriale, che nell’era della galoppante connettività integrata in cui comunque i contenuti “professionali” continuano a farla da padroni rispetto a quelli user generated e social, il nostro continua a essere un sistema forte con i deboli e debole con i forti. Dove – per esempio – un’authority come l’Agcom vigila poco o nulla sul fatto che canali di matrice nazionale e internazionale rispettino le quote di produzione europea e indipendente. Lo stesso sistema che ha espulso dal circuito centinaia di emittenti locali, senza fare distinzione alcuna tra realtà professionalmente e storicamente di valore e quelle che invece non sarebbero neanche dovute nascere. Lo stesso che probabilmente – visto il perdurare della crisi – non potrà permettersi ancora a lungo due costose piattaforme pay, perché se l’utenza base non è destinata a crescere nel breve e medio periodo, l’unica cosa che resta da fare è far impennare l’Arpu (e Sky ci sta provando continuando ad aumentare il numero dei servizi in Hd) e tagliare i costi, a meno di non volersi imbarcare in bagni di sangue senza possibilità di ritorno. Ecco, nell’anno in cui – come preannuncia il report “10 Hot Consumer Trends” di Ericsson ConsumerLab – i modelli di utilizzo dei media si stanno globalizzando, tant’è che proprio i mesi che andiamo a vivere costituiranno un periodo di passaggio storico perché i consumatori guarderanno più spesso contenuti video in streaming rispetto a quelli sulla tv tradizionale, quest’ultima dovrà adeguare più velocemente di quanto non abbia fatto nell’ultimo anno i propri modelli di business. Soprattutto in Italia e in particolare la pay.
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