Canone Rai E luce fu!
Uno spettro s’aggira per l’Europa: cambiare il modello di finanziamento per i servizi pubblici radiotelevisivi. In Francia, il presidente Sarkozy ha deciso di eliminare progressivamente gli spot dalle reti di France Télévisions, mentre in Spagna s’addensano le fila di chi chiede al governo Zapatero di predisporre altrettanto per Tve. Nelle intenzioni, questa soluzione libererebbe risorse che andrebbero a foraggiare gli operatori commerciali che nell’era digitale sono destinati a crescere per numero e livello di competizione. È insomma il modello anglosassone a dettare la linea, dove la Bbc si sostiene al 78% attraverso gli abbonamenti e per la parte rimanente mediante fondi pubblici (7%) e introiti vari (15%).
Il ruolo strategico del canone rappresenta quindi la variabile su cui si impone ragionare in un’Europa delle nazioni con servizi pubblici che siano protagonisti del mercato. Una scelta alternativa rispetto all’esempio statunitense in cui la Pbs costituisce un soggetto marginale, finanziato solo grazie a donazioni e contributi volontari.
E in Italia? Nella schizofrenia tipicamente nostrana, si oscilla tra chi vorrebbe cancellare la pubblicità dai canali Rai e chi propone invece di abolire il canone. Ma, più per reazione che per convinzione, dato che nessuno si è ancora spinto a indicare come rimpiazzerebbe il mancato introito. Se non azzardando uscite del genere: «si taglino gli sprechi» o «si spengano i programmi brutti».
Furori demagogici a parte, risulta piuttosto che la Rai è l’azienda di servizio pubblico dove il canone ha una delle percentuali più basse sul totale ricavi. Cosa che non stupisce visti i 107 euro del nostro abbonamento, se paragonati alle 139 sterline di Uk e ai 118 euro di Francia, 174 di Svizzera, 158 di Irlanda, 280 di Danimarca, 200 di Finlandia, 244 di Austria, 247 di Norvegia e 309 di Islanda. Gli italiani, che hanno un servizio pubblico tra i più importanti e visti d’Europa, pagano quanto i croati (107 euro) e meno degli sloveni (132 euro). Eppure, malgrado l’economicità del servizio, sono oltre 5mln le famiglie che evadono il canone, circa il 27% del totale, in decisa crescita rispetto al 21% del 2000, con punte del 45 e 41% in Campania e Sicilia. All’appello mancherebbe la quasi totalità delle aziende: circa il 95% non pagherebbe la tassa di possesso dei televisori che utilizzano all’interno dei loro uffici. L’ammanco per il Tesoro, dunque per la Rai, supera i 500mln di euro. Quasi mille miliardi del “vecchio conio”.
Sono cifre e percentuali che dovrebbero far riflettere. Che non possono più essere ignorate da chi, Vigilanza, Parlamento, Tesoro e consiglio di amministrazione, decide sul presente e sul futuro della Rai in questa lunga fase di passaggio al digitale terrestre. Il sottosegretario Paolo Romani ha recentemente proposto al governo di abbinare il canone alla bolletta elettrica, «per farlo pagare a tutti e poterlo abbassare, e di parecchio». Buona soluzione, positiva intenzione ma discutibile obiettivo. Perché alla Rai servono invece risorse per mettersi al passo con gli altri broadcaster e poter competere. E anche perché chi paga il canone (almeno quando lo fa) spende già molto meno di quanto non facciano gli altri teleutenti europei. Perciò non resta che sperare che le parole di Romani si trasformino presto in fatti, visto che in passato diversi altri politici si sono cimentati – a parole – nella parte. C’è chi confida piuttosto nel ministro Tremonti, affinché risfoderi per la Rai lo stesso tempestivo e inappellabile piglio decisionista che l’ha spinto ad aumentare l’Iva a Sky.
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