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In questo numero di Tivù trovate due articoli uniti da una sottile linea rossa. Il primo – a pag. 36 – parla del fenomeno delle webseries; il secondo – a pag. 64 – riporta i risultati (sconfortanti) dell’andamento del mercato della fiction nazionale, illustrati da uno studio dell’Iem-Fondazione Rosselli. Al cui interno, oltre al dato degli investimenti in perenne flessione destinati dai nostri broadcaster al genere, si trovano alcuni spunti che dovrebbero far riflettere: come il 33% di fiction italiana trasmessa su Rai e Mediaset in prime time, a fronte del 51% di quella Usa e del 16% di provenienza europea; o come il fatto che il 70% del fatturato complessivo del comparto sia coperto da sole 20 aziende, all’interno di un panorama in cui le società operanti risultano sottocapitalizzate e faticano ad avere accesso a quel credito che consentirebbe loro di investire e sperimentare. Dall’altra parte, avanza un genere che, per fortuna, richiede invece budget ragionevoli e idee fresche, in grado di intrattenere, sul web, proprio quel pubblico che alla tv di flusso si va disaffezionando. Seppur va sottolineato che il piccolo schermo si difende ancora bene: 253 i minuti medi visti nel 2011 contro i 230 del 2007, mentre in Uk sono 242 e in Spagna 239. Unendo i puntini di quanto detto, si evince che nel nostro Paese si registra una forte domanda di televisione, a fronte di un’indebolita capacità dei broadcaster di sostenere finanziariamente la produzione di titoli originali, mentre online si fa strada un genere mutuato dalla tv che non solo appare economicamente più sostenibile, ma soprattutto è portatore sano di quell’innovazione di linguaggio e di struttura di cui i formati classici della fiction hanno bisogno più del pane. Che fare allora? Alcuni tra produttori e reti provano ad avventurarsi su questo terreno, realizzando delle webseries per conto di sponsor e piattaforme. Si tratta però di tentativi, ancora ben lungi dal dettare la linea e dal diventare un fenomeno, perché – oltre a latitare una strategia chiara in tal senso – fanno i conti con ostacoli strutturali a volte insormontabili. Uno per tutti, la rigidità causata dalla concentrazione del mercato, che non lascia spazio di manovra alle giovani start-up solitamente incubatrici della serialità web. Quindi, se il comparto non vuole perdere il passaggio offerto da questo ulteriore treno dell’audiovisivo, deve favorire un patto generazionale tra le imprese. Attraverso il quale i broadcaster si impegnerebbero a sostenere quei progetti in cui aziende più storiche – soprattutto quelle che monopolizzano il mercato – possano farsi carico di idee e progetti sorti all’interno di questi veri e propri laboratori per il web. Così facendo, si assicurerebbe una copertura finanziaria e un confezionamento professionale tale da garantire al prodotto il salto dall’online ai canali tematici, finendo nel tempo con l’ibridare (almeno si spera) l’ormai più che datata scrittura del prime time delle reti ammiraglie. Il che è come dire che, con gli attuali chiari di luna, non ci si può permettere di sottovalutare qualsiasi occasione che consenta di produrre meglio a meno. È questa la sfida che si deve cogliere: favorire la nascita e l’innesto di player che sappiano imporre nuovi paradigmi al posto delle vecchie rendite di posizione.
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