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Il draghetto Grisù voleva fare il pompiere, i ragazzini vorrebbero diventare calciatori, le adolescenti veline, e chiunque – dicasi chiunque – da grande vorrebbe fare il produttore tv. È questa l’impressione che si ricavava girando per i padiglioni del recente MipCom di Cannes: incontrando i numerosi italiani in trasferta, si sentiva una girandola di nomi di persone e personaggi che hanno già costituito, lo stanno per fare o vorrebbero farlo, una società di produzione. Al che verrebbe da chiedersi: cosa avrà mai di tanto attraente la figura del produttore tv, da suggerire a giornalisti, autori, “parenti di” e sodali di spingersi su un terreno su cui – mai come in questo periodo – pascolano mandrie di vacche magre? Per inciso, da noi sono già 857 le imprese attive in produzione audiovisiva. Ovviamente, niente di nuovo sotto il sole: anche in passato c’è stato un fiorire di amici degli amici che si sono cimentati nella non facile arte della produzione, spesso con esiti editoriali esilaranti, e risultati finanziari modesti. Solo che a quelli del passato se ne vanno aggiungendo dei nuovi, a ogni cambio di cda e di direttori di rete. Già, perché molti di costoro – rigorosamente senza capitali e con un know-how scarso, quando non inesistente – puntano soprattutto all’osso Rai. Ma un morso aspirano a darlo anche alla coda del Biscione e, in terza battuta, al cielo di Sky. Il risultato sarà che in capo a un anno ci si ritroverà con una dozzina, e oltre, tra nuove microsocietà autoctone e alcune di importazione (la Toro di Sony, già in fase di lancio, più la Shine di Elisabeth Murdoch e la Talpa di John de Mol, che hanno annunciato di voler venire nel Belpaese). Sia chiaro: tutti sono benvenuti, soprattutto nei casi in cui portino in dote capitali, idee nuove ed energie fresche di cui gli attuali palinsesti hanno tanto bisogno, in caso contrario la già non facile situazione del settore è destinata ad aggravarsi. Perché l’eccessiva polverizzazione delle imprese italiane, la loro dimensione medio-piccola (se non piccolissima), lo schema di produzione vigente, in appalto per il broadcaster, e quindi la non titolarità dei diritti dei contenuti realizzati, le rendono già molto fragili. Se a questo si aggiunge che, in un mercato reso già rigido dal semi-triopolio, nell’orbita Mediaset gravitano Endemol, Taodue, Mediavivere, Fascino e Ares (quattro delle quali operano in esclusiva), si intuisce come i margini di manovra siano ridotti e come il settore non senta proprio il bisogno di aziende che sbuchino dal nulla o quasi, si procurino uno o due appalti succulenti, per poi andare in letargo o svanire nel nulla. Diciamocelo una volta per tutte forte e chiaro: la televisione italiana ha bisogno di società di produzione indipendenti strutturate, in grado di competere sui mercati internazionali e di investire in uomini e idee. Invece il loro nanismo attuale sta tutto in un dato, posto drammaticamente in luce dalla Fondazione Rosselli (vedi articolo a pag. 48): due società tedesche, Studio Hamburg e Bavaria Media, producono da sole tanta fiction quanto tutte le imprese italiane messe insieme (906mln di euro). Non a caso la Germania, che programma il maggior monte ore di prodotto nazionale (5.464 contro le 2.475 italiane), è il Paese che esporta di più in Europa (2.502 ore contro le nostre 91). Che fare? Difficile dirlo. O, quanto meno, si dovrebbero ribadire qui tanti di quei se e quei ma che siamo andati ripetendo negli ultimi sei anni. Però, in tale contesto comincia ad avere un senso quell’idea – giudicata dai più bislacca – sorta in seno all’Associazione dei produttori televisivi, che qualche anno fa auspicava la costituzione di un albo dei produttori. Certo, in epoca di imperante liberismo sarebbe un’iniziativa in controtendenza, ma non si dice che a mali estremi occorra opporre estremi rimedi?
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