Il futuro è adesso
ll’Ifa di Berlino i maggiori brand di elettronica di consumo hanno presentato televisori collegabili a internet. Al MipCom di Cannes viene lanciata Endemol Worldwide Distribution, una sorta di “braccio armato” teso a supportare e incentivare la vendita dei format della società in tutto il mondo. L’inglese BSkyB si appresta a lanciare nel 2010 il primo canale in 3D per i suoi abbonati. È un decennio televisivo turbolento, contraddittorio e – almeno per certi versi – esaltante quello che si chiude il prossimo anno. Da una parte, infatti, c’è uno showbiz in stasi (studios e broadcaster in emergenza budget, star con cachet a cottimo, inserzionisti in deficit di vendite), dall’altra avanza uno sviluppo tecnologico rutilante (con internet e tutte le implicazioni che esso comporta, e un universo digitale che non fa in tempo a proporre l’Hd che rilancia col 3D). In mezzo centinaia e centinaia di canali che, moltiplicando a dismisura la possibilità di trasmissione, si presentano famelici di contenuti ma – al momento – poveri di risorse per finanziare l’offerta. Comunque, un dato è certo: nel momento in cui si individueranno uno o più modelli di business sostenibili, il settore televisivo potrebbe subire un’esplosione. Lo sa Endemol Italia, che – per bocca del suo presidente e ad nell’intervista di copertina di questo numero – ammette di stare investendo molte risorse nel digital; lo sa l’industria dell’entertainment a stelle strisce che si sta esercitando per trasformare le minacce della new economy in un’epocale opportunità per la old economy. Come? Creando contenuti originali per il digitale (online e mobile), spesso ispirati a brand e generi della tv tradizionale, in associazione o col supporto di grandi marche del largo consumo, oppure “esperimenti” promossi dagli stessi studios e broadcaster trasferibili sui canali tradizionali. Così, piccole e grandi start up nate spontaneamente o gemmate da società con un’attività alle spalle stanno creando show che lasciano intravedere cosa potrà succedere in un prossimo futuro. E la Rete è il maggior terreno di confronto. Vedi il fenomeno delle web fiction. Come The Broadroom, ideata da Candace Bushnell (Sex & the City, Lipstick Jungle) in alleanza con l’azienda di cosmetici Maybelline; Private, prodotta dalla Alloy (la stessa di Gossip Girl) e finanziata da Neutrogena; Ctrl, realizzata da Nbc Universal e pagata da Nestea; Web Therapy, finanziata e prodotta direttamente dalla Lexus; In the Motherhood, finanziata da Unilever e Sprint. Si tratta di formati brevi, mediamente di 3/10 minuti, e di buona se non ottima scrittura, in cui branded entertainment e product placement rappresentano le maggiori voci di finanziamento e i portali ugc, come YouTube, il mezzo più immediato per metterli a disposizione di un pubblico planetario. Esiste anche una soluzione alternativa, mutuata dalla tv classica, quella dei lunghi formati (soprattutto i telefilm cult), offerti gratuitamente perché sponsorizzati da uno o più inserzionisti (la formula Hulu, per intenderci). È insomma un mix di Old e New Tv, di Old e New Advertising ciò che sta tentando con qualche successo di farsi largo Oltreoceano. E in Italia? Capita poco o nulla: il rischio è che la crisi imperante, che ha imposto una drastica riduzione di costi e di investimenti in ricerca e sviluppo, prenda il sopravvento e che da noi – così come in buona parte della vecchia Europa – si resti a osservare il “nuovo che avanza” senza aspirare a farne parte. Con qualche timida eccezione. Si prenda l’esempio di alcune factory (vedi servizio a pag. 60), all’interno delle quali nascono e si esercitano non solo nuovi contenuti per nuovi media, ma si tenta di ridisegnare il modello produttivo e di rimando editoriale della stessa tv classica, mettendo a punto modalità di produzione più snelle e ottimali. Al che una domanda sorge spontanea: sapranno i nostri eroi (inserzionisti e broadcaster) approfittarne?
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