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«Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita». Mi ha sempre affascinato questo proverbio cinese. Mi ci trovo perché è una filosofia di pensiero e di vita che punta sulla valorizzazione del talento e denuncia l’inutilità delle scorciatoie, anzi – di più – la loro nocività. Perché quando dai qualcosa a qualcuno per sbarazzarti più velocemente del problema, non fai il bene di quel qualcuno e neanche – a lungo andare – il tuo. Stai solo rimandando la soluzione, col rischio di aggravare la situazione. La storia della politica italiana è piena di “elargitori di pesce per conto terzi” (cioè a dire che lo hanno fatto sempre spendendo, male, i proventi delle nostre tasse), mentre pochi, pochissimi, sono stati coloro che hanno ragionato in prospettiva, pensando a un futuro di sviluppo anche per le nuove generazioni. I politici attuali non sono da meno. È come se non avessero mai sentito parlare della fatica nell’imparare, di meritocrazia, di come sia nell’ordine naturale delle cose potersi procurare il sostentamento “col sudore della propria fronte“. È come se la politica non conoscesse nulla di come funziona un’economia capitalistica (che non è una brutta parola, ma chiamare le cose col proprio nome), dove il reddito non è un pre-requisito di cittadinanza, essendo l’utile che in un dato lasso di tempo viene dall’esercizio di un mestiere, di un’attività produttiva, di un investimento. Non è un caso se la Costituzione sancisce che la nostra è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E non sul reddito… Non sarebbe stato più coraggioso affrontare piuttosto la ben più ardua sfida del lavoro di cittadinanza? Ma tant’è.Il reddito è per sua natura, un do ut des, altrimenti diventa regalia, obolo, sussidio. È come se i politici non conoscessero il senso delle parole lavoro e impresa, cosa significa produrre o imparare, sbagliare e rialzarsi per fare meglio. Dopo aver sbandierato ai quattro venti termini come “cittadini”, adesso chiamano a raccolta “il popolo”, lasciando nei più il retrogusto amaro di essere precipitati in una brutta parodia della Rivoluzione francese. Ecco, trovo che il nostro Stato – e ancora di più il nostro governo (mi auguro in buona fede) – stia vivendo all’interno di una grande bolla in cui l’assistenzialismo è stato eletto a strumento di crescita economica, ammantandosi di un paternalismo degno d’altri tempi. Ci si indebita, senza tagliare prima gli sprechi. Si parla di fantomatici centri per l’impiego in grado di proporre alla massa di disoccupati italiani almeno tre offerte di lavoro, il che vorrà dire che – a meno che non li fabbrichino in laboratorio – dovremo sborsare redditi di cittadinanza vita natural durante. Non sarebbe stato più sensato collaborare con chi veramente il lavoro lo crea? Le imprese. E invece le si penalizza. È il mondo all’incontrario, dove popolo e cittadini si trasformano in una platea elettorale fatta di sudditi ai quali è più facile e conveniente elargire con benevolenza un pesce quotidiano, anziché creare le condizioni per poter interagire con individui lasciati liberi di decidere dove, come, quando e con chi pescare.
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