Riformulare l’articolo 18 o morire
Di articolo 18 si può morire? Personalmente, ritengo di sì. Basta fare mente locale sulle polemiche fiorite in pieno agosto, intorno all’ipotesi di prevedere tutele crescenti per i nuovi assunti piuttosto che all’abolizione tout court dell’articolo dello Statuto dei lavoratori sulla licenziabilità dei dipendenti, sfociata nell’auspicio che sia l’intero testo stilato da Gino Giugni e compagni nel 1970 a essere riscritto. Da allora, 44 anni sono passati, il mondo ha subito tornate di stravolgimenti: in particolare quello del lavoro ha dovuto misurarsi con la globalizzazione dei mercati, la digitalizzazione dei processi produttivi e da ultima, ma non per ultima, la crisi che attanaglia la nostra economia ormai da sei lunghi anni. Come dire che l’universo dei lavoratori è cambiato anche nel genere (il terziario ha guadagnato terreno rispetto agli addetti delle fabbriche e dell’agricoltura), ma lo Statuto è rimasto uguale a se stesso. Neanche fosse un totem da venerare, cieco e sordo davanti a un unico dato certo: senza aziende sane e forti, non può esserci ripresa per un’Italia ormai ferma al palo, né occupazione per le centinaia di migliaia di persone che hanno perso il loro impiego e per le altrettante – giovani e giovanissime – che ne stanno cercando uno. La verità è che qualsiasi impresa – non solo quelle con meno di 15 dipendenti – dovrebbe poter essere libera di ristrutturarsi, di cambiare faccia e modello potendo rimettere sul mercato (quindi licenziare, senza subire devastanti penalizzazioni economiche e legali) professionalità che non siano più in linea con il proprio business, per assumerne altre che la mettano in condizione di competere meglio. Ovviamente, a fronte di un welfare degno di tale nome. Ipotizzare tutele crescenti non basta, perché oltre a considerare la forza lavoro in entrata bisogna concentrarsi anche su quella in uscita, visto che nell’era di internet e dei mercati senza confini il fronte della produzione cambia alla velocità della luce, e non sempre manager e lavoratori sono disponibili a stare al passo. Senza un profondo ripensamento sugli ambiti delle tutele, le aziende continueranno a fallire, perché non esistono oggi i presupposti affinché un imprenditore possa almeno preservare la parte più sana dell’azienda: con la rigidità odierna, o ci si salva tutti o nessuno, provocando ripercussioni che amplificano a dismisura la portata reale della crisi. D’altra parte è una legge della fisica a confermare come un corpo rigido sia in grado di reagire meno bene di uno flessibile, costituzionalmente disposto ad assorbire meglio gli urti. E cos’è questa crisi, con cui avremo a che fare almeno per un decennio, se non un terremoto, un continuo sommovimento tellurico che sta togliendo il terreno sotto le fondamenta delle aziende? Al netto di certi imprenditori che ciurlano nel manico, e che si trovano ad avere motivazioni personali quando non politiche per liberarsi di un determinato elemento, va detto che la categoria non avrebbe peraltro alcun masochistico interesse a fare a meno di quei dipendenti la cui preparazione, know how e – perché no – condivisione degli obiettivi compongono il capitale stesso dell’azienda. Smettiamola di raccontarci fandonie politically correct: l’inflessibilità che sindacati e parti sociali hanno preteso quasi mezzo secolo fa sulla possibilità o meno per le aziende di licenziare, era figlia della cultura che vedeva imprenditori e lavoratori l’un contro l’altro armati. Oggi è un dato di fatto che entrambe le categorie si trovino sulla stessa barca, e che qualsiasi tentativo dell’una per colpire l’altra equivale a un suicidio.
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