06 Marzo 2014
CHE SENSO HA UN CINEMA DIVISO?
Al di là dei due tradizionali appuntamenti annuali con le Giornate Professionali ce n’è dall’anno scorso un terzo in cui l’industria del cinema italiano sembra unita nel dare di sé un’immagine finalmente compatta, proiettata verso il futuro (anche se magari è solo la prossima stagione) e determinata a seguire il ritmo sempre più incalzante dell’innovazione tecnologica, ovviamente senza dimenticare i dibattiti – anche accesi – al proprio interno. Si tratta, è evidente, della Festa del Cinema.
Il pubblico, che è poi il grande finanziatore del nostro cinema, sembra aver percepito di avere di fronte un interlocutore unico, finalmente, e ne ha premiato lo sforzo nel proporre film a prezzi scontati per favorire il prolungamento della stagione. L’unità, vera o presunta, è però durata pochissimo. Le categorie della cosiddetta “filiera” sono subito tornate a separarsi, e a combattere in ordine sparso nei confronti di un governo che pure si era mostrato benintenzionato (non SI SPERI MINIMAMENTE che il nuovo sarà più attento degli ultimi dieci, che oltretutto avevano molti più soldi a disposizione in assenza della crisi). Fino all’altro giorno. Quando, cioè, l’Anem è tornata in Anica. Anche fisicamente, trasferendo a Regina Margherita i propri uffici. Un passo che va nella direzione espressa chiaramente nel mio pezzo di un paio di numeri fa, quando auspicavo il ricompattamento di tutte le categorie della nostra industria cinematografica per far fronte alla gravissima crisi economica attraverso la creazione di un nuovo ed unico interlocutore cinematografico per governi e istituzioni.
L’Anem rappresenta il 45% del mercato. Il restante 55% è sotto la bandiera dell’Anec che invece aderisce all’Agis (associazione in forte difficoltà e con una sempre più chiara separazione d’interessi al propri interno): fortissima negli anni 50, quando gli schermi erano oltre 10mila e le sale tutte monoschermo, assai meno oggi, con poco più di duemila schermi associati e la grave piaga della chiusura delle monosale cittadine. Ha senso questa divisione residuale? Ha portato a qualche risultato concreto? Vale davvero la pena di continuare per sempre una divisione nata dalle vecchie impostazioni corporative fasciste nel 1945? O è invece più opportuno discutere di una federazione cinematografica unica che, nel rispetto delle specificità dei singoli, combatta battaglie di ampio respiro con la forza di un intero settore dell’industria culturale italiana?
Ai posteri, temo, l’ardua sentenza.