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Per questa edizione 2011 il romanzo del Fus ha un lieto fine. È però facile presagire che non bisognerà attendere ancora molto per assistere ad un sequel, e poi a un altro ancora della stessa, ormai hitchcockiana vicenda del Fondo Unico per lo Spettacolo e del thriller dei suoi depauperamenti e rifinanziamenti sempre effettuati “in corsa”, a tempo quasi scaduto. Sempre meglio di niente, per carità, ma si sa che i provvedimenti emanati sotto pressione risolvono il problema di un giorno, in questo caso di un anno. Che poi si ripropongono esattamente come li si era lasciati. Per quanto riguarda il cinema, questa del “prendi i soldi, scappa e poi torna” è una tradizione che ha radici ultradecennali. E le colpe sono di tutti. Sì perché il Fus, voluto nel 1985 dal primo governo presieduto da Bettino Craxi, e ideato da Luigi Mazzella (allora Capo di Gabinetto del ministro per lo Spettacolo Lagorio), aveva come principio ispiratore quello di stanziare le cifre destinate allo Spettacolo per ogni triennio a venire, in modo da consentire a tutti gli operatori del settore di poter finalmente programmare la loro attività con il necessario anticipo e l’indispensabile serenità economica. La legge “madre” del 1985 stanziava sì la cifra globale e i criteri di ripartizione tra i vari comparti dello Spettacolo, ma prevedeva la nascita delle cosiddette “leggi figlie” per il cinema, la musica e il teatro attraverso le quali la somma stanziata sarebbe dovuta diventare uno “stimolo e un sostegno” per le attività, e non una pura reiterazione di contributi statali a pioggia che proprio il Fus si prefiggeva di sostituire completamente. Bene, le leggi figlie non sono mai arrivate. E il Fus si è limitato a sostituire in anticipo i vecchi provvedimenti di fine anno con cui lo Stato finanziava in extremis le varie attività, nel frattempo però già gravate dall’esposizione bancaria dovuta per le anticipazioni richieste, ragion per cui anche quelle leggi alla fine arrivavano tardi ed erano insufficienti. Come si è perfettamente visto quest’anno, anche al Fus – ripetiamo, nato per anticipare e programmare – è toccata la stessa sorte delle leggine di fine anno. Prima tagliato in modo da renderlo inutilizzabile, poi reintegrato all’ultimissimo momento, come un salvagente gettato a chi sta per annegare. Giustamente, all’indomani del salvataggio, tutto il mondo dello spettacolo ha esultato, con pochi distinguo. Il problema, adesso, è il futuro del Fus e della sua gestione, non solo dei fondi. Perché l’attività di stimolo all’impresa il Fus non solo non l’ha avuta, ma si è sostituito ai capitali dell’impresa stessa. E con la compiacenza dei suoi tanti utilizzatori. Ai quali – è ovviamente una mia supposizione – se fosse chiesto un Fus ma con un miliardo e mezzo in dotazione da spendere inutilmente a pioggia o uno con 700 milioni (è la cifra indicata dalle Associazioni di categoria come ottimale per il funzionamento del Fondo) ma ben funzionante, sono assolutamente certo che tutti sceglierebbero il primo. In più, molti tra autori, registi e attori tra i più giovani, considerano il Fus una sorta di dirittio acquisito, senza neppure conoscerne la storia di lunghe trattative tra l’Agis, l’Anac e il Ministero dello Spettacolo. Recentemente mi è capitato di chiedere a molti esponenti del nostro cinema in che anno fosse nato il Fus…be’, nessuno – salvo una giovane attrice di successo – ha saputo rispondere non solo con l’anno ma neppure con l’occasione politica che l’aveva partorito. Il cinema italiano non ha memoria neppure di se stesso. È vero. E non sa neppure quanto invece gli servirebbe..
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