Più programmi con la coda
«Le nuove generazioni preferiscono prodursi in altre attività (rispetto alla tv, ndr) per raccontarsi». Risultato: il piccolo schermo sta perdendo intere fasce di pubblico e di professionisti. Il vaticinio non è nuovo, ma autorevole, se a confermarlo – nella cover story di questo numero – è uno dei personaggi più solvibili in termini di audience come Paolo Bonolis. Che continua: «La tv sta morendo, sta diventando un luogo dove ormai si svolgono altre attività rispetto alla produzione di spettacolo puramente televisivo. Il fatto è che ormai si preferisce comprarla, già bell’e pronta, da Paesi che ancora lavorano con un’attenzione superiore alla nostra». Una diagnosi, inclemente, che ha in sé in qualche modo la cura. Ovvero, la centralità del contenuto, decisamente mortificata in un Paese come il nostro che negli ultimi anni ha speso miliardi di euro per la transizione tecnologica verso il digitale, ma che stenta a trovare investimenti e disponibilità per un’industria audiovisiva in grado di produrre programmi in linea con i gusti che cambiano. E non si tratta solo della ritrita storia della nostra bilancia dei pagamenti tv, profondamente in rosso alla voce export. Quanto, piuttosto, del fatto che, nel concepire le proprie strategie editoriali, la nostra tv generalista si mostri poco consapevole di essere l’origine prima del tutto e, in quanto tale, di poter (volendo) dettare la linea. Basta dare uno sguardo al suggestivo ecosistema tratteggiato da Groupm nella sua recente ricerca sulla Catch Up Tv (vedi pag. 46) per rendersene conto. E per rendersi conto di quanto sia vero l’assunto, proposto appunto dal report, che internet non sostituisce, ma integra la tv. A condizione però – verrebbe d’aggiungere – che quest’ultima si faccia alla lunga promotrice di un prodotto televisivo che abbia i tempi, i formati e l’appeal consoni al pubblico delle varie piattaforme e, non in ultimo, della rete. Perché se la sofa-tv comincia a stare in una posizione scomoda, ma comunque solida, la Catch Up Tv è in grado di offrire una dieta mediatica in costante evoluzione nelle varianti del consumo snack, revideo e premium. Come dire che, se fino a un decennio fa bastava che i programmi avessero i baffi (espressione popolare ante spot camicesco by Maurizio Costanzo), oggi gli tocca avere anche la coda. Quella teorizzata da Chris Anderson, che suggeriva la creazione – accanto agli show evento – di un filone di programmi in grado di generare prodotti capaci di intercettare i gusti e le aspettative di più segmenti della platea televisiva (on e off line). Si tratta di fare un salto di mentalità che Sky ha preteso da Auditel per la rilevazione degli ascolti differiti, instillando – con l’aggiunta di un’originale campagna sul MySky – l’idea di una tv a misura di vita. E verso cui i colossi della pianificazione pubblicitaria mondiale si stanno muovendo per accompagnare i propri clienti-inserzionisti, fornendo loro strumenti di analisi e formati adv innovativi. Adesso tocca agli editori (e l’espressione non è usata a caso) fare il loro mestiere, non solo stando al passo quanto anticipando le tendenze. Magari scegliendo di perdere audience subito, per consolidare brand e target poi. Solo così, gli ascolti e le risorse persi a monte possono essere recuperati più a valle dalle reti. Anche se il modello di business è ancora ben lungi dall’essere equanime, e il rischio che la tv generalista si limiti a subire – in tutto o in parte – gli eventi rimane ancora molto alto.
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