C’è stato un tempo in cui un talk show era un talk show, uno spettacolo da prima serata era tale, come lo era uno sceneggiato televisivo poi mutatosi in fiction. Allora, qualsiasi programma apparteneva a un genere rispondendo a precisi canoni di riferimento. Adesso non è più così, i talk si appoggiano ai comici, gli spettacoli di prima serata con canti, balli e lustrini si sono consegnati armi e bagagli alle giurie da talent, e le fiction hanno un grande debito di riconoscenza verso le soap. Quel che è una trovata, a volte un espediente, altre uno scivolone, viene copiato e riproposto diventando prassi. Così, nell’anelito del risparmio economico e creativo, volendo allo stesso tempo andare sul sicuro evitando ogni possibilità di spreco ed errore, i palinsesti pullulano di abborracciati Frankenstein. Prendiamo, per esempio, Forte forte forte che avrebbe voluto essere un talent, mentre invece è la dimostrazione vivente di come, se non si ha un’idea chiara in testa (ovvero su come mettere insieme gli elementi basic di questo genere di show, il primo dei quali presuppone che almeno chi deve giudicare i possibili talenti lo sia a sua volta…), avere un budget stellare, una rete forte, una seppur datata signora della tv italiana nel cast, un format che altrove funziona, sono plus che anziché sommarsi si elidono a vicenda. Vogliamo parlare de L’isola dei famosi? Probabilmente, al di là delle (s)venturate inadeguatezze della Marcuzzi, la cosa giusta è stata detta da Aldo Grasso quando ha osservato che «finora non si sono fuse le culture produttive di Mediaset e di Magnolia. Questi programmi o sono appaltati chiavi in mano o l’ibrido crea queste mostruosità». Accade così che, mentre la guardi, se tra un break e l’altro facendo zapping capiti sul Boss in incognito di RaiDue, esso appaia come un fulgido esempio di “show comme il faut” e Costantino della Gherardesca un novello Corrado 3.0. Ma si può? Vogliamo parlare della dozzina di talk show che si sovrappongono riproponendo quanto è già stato detto dalla stessa compagnia di giro esattamente mezz’ora prima ai microfoni dei tg e che per differenziarsi duplicano – attraverso espedienti vari – all’infinito la fortunata componente satirica di Crozza all’ex Ballarò, riducendo lo stesso bravo comico ligure a una pallida imitazione di se stesso su La7? E le fiction che, pur avendo occasione e modo di approfondire le sfumature delle storie, si limitano a rimanere a pelo d’acqua come una soap qualsiasi, nell’ambizione di rimanere il più larghe possibili? Vogliamo dire dei programmi del pomeriggio che si trasformano da salotto rosa ora in magazine di cronaca nera, ora in ribalta politica, generando straniamento e “marmellatizzando” ogni possibilità di differenziazione del palinsesto in base all’orario e alle opportunità? È una sorta di conformistica barbarie quella che ha investito la tv generalista, mentre le tematiche – in quanto tali – focalizzano sempre di più, a volte anche meglio, la loro offerta (vogliamo parlare di Iris che, con i suoi film stravisti, certe sere fa mangiare la polvere a RaiTre?). È come se, dovendo preparare una pietanza che possa piacere a più commensali possibili, mettessero in pentola gli ingredienti e le spezie più disparati, con il risultato di fare dei piatti immangiabili, a meno di non essere affamati. Ma a quel punto andrebbe bene tutto, anche il monoscopio… E se invece il segreto stesse in una sorta di ritorno alle origini, al tempo in cui ogni programma aveva l’ambizione di essere quello che sembrava? Basta guardare la linearità di titoli come Sconosciuti piuttosto che Gazebo per rendersi conto che una nuova semplicità televisiva è ancora possibile, basta avere il talento e la capacità di coglierla nonché di mandarla in video. E questo è certamente l’aspetto più complicato.
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