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Si affilano i coltelli, dietro i sorrisi di soddisfazione che si scambiano responsabili dei canali, produttori, concessionarie all’indomani dell’ormai certa legittimazione del product placement all’interno della produzione tv nazionale. L’attesa è alle stelle, perché tutti, dicasi tutti i contendenti vogliono avere la meglio sull’altro. Il più rude e diretto, come si conviene a un vero uomo del Nord, è stato il vicedirettore Rai, Antonio Marano, che, durante un incontro organizzato da Sipra a Milano, ha esordito: «La platea (centri media e inserzionisti, ndr) è la più qualificata per dare questa comunicazione: il product placement per i programmi delle reti Rai sarà gestito da noi, solo da noi, attraverso Sipra». Il tono, seppur cordiale, è di quelli che non ammettono repliche, e che tradotto in soldoni vuol significare: «Cari signori, non accettate come interlocutori per eventuali collocamenti dei vostri marchi nei nostri programmi produttori et similaria, perché no passarant. Sipra è l’unica autorizzata a gestirne il piazzamento». Il segnale è inequivocabile: anche sul p.p., così come per i diritti (residuali e non) sulle produzioni, le reti non hanno alcuna intenzione di mollare. Con buona pace delle legittime aspirazioni di quei produttori indipendenti che, tra l’inerzia delle concessionarie, si sono confrontati a Bruxelles come a Roma perché la norma passasse prima nella nuova edizione della direttiva Tv senza frontiere e poi perché fosse recepita nell’ordinamento nazionale. Ora però i nodi sono destinati a venire al pettine. Occorre stabilire chi e come potrà decidere di inserire i prodotti all’interno delle trasmissioni di intrattenimento e di fiction; quali precauzioni devono essere adottate a difesa del lavoro di autori, del pubblico e degli inserzionisti dei break. In più, particolare non da poco, si dovrà disporre come dovranno essere ripartiti i proventi. Quanto andrà alla rete e quanto al produttore. Al momento, le posizioni più estreme sostengono che a beneficiarne dovrà essere in toto ora la prima ora il secondo. Difficilmente, se non attraverso duri compromessi, si arriverà a una condivisione paritaria come avviene altrove, data la posizione di subalternità della produzione indipendente nei confronti dei broadcaster. Vero è che delle regole si impongono. Prima che, così come con gli spot, si arrivi a livelli di guardia di efficienza ed efficacia del mezzo, per cui ci ritroveremmo con conduttori e show superbrandizzati alla stregua di piloti e bolidi di Formula 1. E una discriminante potrebbe essere il prezzo. Per le reti più a rischio, ovvero le reti generaliste, predisporre delle tariffe elevate, e non suscettibili di ipersconti, per il p.p. potrebbe essere un buon inizio per selezionare i prodotti, e renderlo praticabile solo a una certa fascia di brand, abbassando così il numero degli aspiranti senza però dover rinunciare alle preziose risorse che tale pratica è in grado di procacciare. Ma soprattutto è un mezzo che non può e non deve rimanere nel solo ambito di gestione dei canali, quanto piuttosto risultare la somma di una serie di valutazioni condivise tra produttori, responsabili di rete, concessionarie e centri media/inserzionisti, iter che non può essere semplicemente auspicato (come fa il decreto Romani riferendosi all’autoregolamentazione), ma imposto attraverso precise norme, predisposte magari da Agcom. Che siano anche in grado di porre dei paletti al numero e alla profondità degli inserimenti dei brand all’interno della “trama editoriale” dei singoli programmi. Il momento è cruciale: un passo falso rischierebbe di trasformare la pratica del p.p. da un business aggiuntivo in una giungla, in un ulteriore elemento di disturbo di cui la nostra televisione, perennemente sottesa nel delicato – quanto precario – equilibrio tra utile e dilettevole, non sente francamente il bisogno.
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