Faccia a faccia con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone

Reduce dalla scrittura di Freaks Out, Guaglianone racconta il suo punto di vista sul cinema italiano

Di seguito un estratto dell’intervista allo sceneggiatore Nicola Guaglianone, pubblicata su Box Office del 15 novembre (n. 18). Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.

Sceneggiatore, classe 1973, Nicola Guaglianone – nato a Napoli, “adottato” da Roma – è uno degli autori più prolifici nel campo dell’audiovisivo italiano, attivo come story e script editor per numerose case di produzione, firma di serie Tv (Suburra – La serie, Vita da Carlo) e lungometraggi. Solida penna in commedia (Sono tornato, La befana vien di notte, Non ci resta che il crimine) e spesso accanto ad autori con cui costruisce vere e proprie affinità elettive (con Gabriele Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, con Ficarra e Picone per L’ora legale e Il primo Natale), Guaglianone è stato tra i primi a cimentarsi nel ruolo di showrunner in Italia. La sua formazione è avvenuta tra l’Italia (alla scuola di Leo Benvenuti) e gli Stati Uniti, dove ha frequentato il seminario di sceneggiatura del guru mondiale dello screenwriting Syd Field. Nel 2016 ha fondato con sua moglie, Chiara Lalli, la casa di produzione Miyagi Entertainment, e attualmente è al lavoro su tre nuovi progetti.

Scuole di sceneggiatura americane e italiane, ci sono differenze sostanziali?
Sì, personalmente preferisco l’approccio anglosassone, quello che non relega a un’élite il lavoro dello sceneggiatore, quello che sostiene che il talento vada coltivato con lo studio, non dando libero sfogo al genio o all’immaginazione. Quando si scrive, il 20% è immaginazione e l’80% è metodo. Io ho iniziato con i seminari di Leo Benvenuti, che aveva impostato il corso come se fosse la bottega di un artigiano fiorentino del ‘500. Con lui si lavorava fin da subito. Perciò diffido delle scuole di cinema in cui gli insegnanti invitano gli allievi a “tirare fuori il genio”, suggerendo loro che non esistano regole. Come disse Moravia, di poeta ne nasce uno ogni 100 anni. I miei allievi non sono tutti dei Paolo Sorrentino: non posso diplomare un genio e 99 disoccupati. Quello dello sceneggiatore è un mestiere che si può insegnare e imparare. Io insegno ai ragazzi le regole di un lavoro che funzionano dai tempi di Aristotele, cerco di offrire loro delle opportunità, che è la cosa più importante.

Perché gli sceneggiatori italiani frequentano poco il genere puro?
Il genere è un mezzo per raccontare altro, è un vestito che si fa indossare al tema. Poi certo, per tanto tempo in Italia hanno prevalso i pregiudizi per cui il genere era una categoria di serie B, una specie di sottoprodotto. È un pregiudizio che resiste ancora oggi nei confronti delle commedie: come se la visione ironica del quotidiano equivalesse per forza a un’interpretazione superficiale del reale. Ma Ludwig Wittgenstein, il filosofo, diceva che il più serio saggio filosofico dovrebbe essere composto solo di storie e barzellette.

Freaks Out (© 01 Distribution)

Scrivere pensando alle potenzialità commerciali di un film è un tabù tra gli sceneggiatori italiani?
Il vero riconoscimento del lavoro è dato dal pubblico. Che non significa andare forzatamente incontro al pubblico, di cui nessuno potrà mai indovinare i gusti. Si dice che “per i produttori italiani il successo dell’anno prossimo è il successo dell’anno prima”. Io credo che un film sia riuscito quando riesce a intrattenere tante persone. Commerciale non è l’equivalente di brutto. Ho lavorato a La Befana vien di notte 2 con Paola Randi e ci siamo posti il problema di scrivere un family che potesse divertire anche i genitori. Ora sono alle prese con un horror, e mi chiedo: voglio fare un horror puro o voglio provare a estenderlo anche al pubblico che di solito non si appassiona a queste storie?

Qual è il target meno considerato oggi dal cinema italiano? Ci sono nicchie che si potrebbero esplora- re ulteriormente?
I bambini sono stati a lungo dimenticati. La Befana vien di notte ha provato a costruire un dialogo con questo target. I Me contro Te sono tra i pochi ad esserci riusciti. Ora mi piacerebbe costruire un immaginario che faccia innamorare i bambini del cinema. Del resto, se facciamo questo lavoro è perché da piccoli ci siamo entusiasmati per film come Ritorno al futuro, E.T., I Goonies. Il cinema ci ha fatto vivere avventure che ci hanno emozionato e non c’è modo migliore per ricostruire il pubblico della sala se non quello di rifarlo innamorare.

Quanto il nostro cinema è disposto a ragionare in termini di franchise con sequel, prequel, universi espansi e spin-off?
Normalmente si ha la tendenza a spremere come un limone ciò che ha funzionato, ma non sono contrario ai franchise. Ora sto scrivendo il nuovo film di Lillo Petrolo, e l’ho pensato come un franchise che affezioni il pubblico. Il concetto di franchise era già praticato negli anni Settanta, basti pensare alla saga del Mon- nezza, anche se poi questo movimento si è perso per strada.

Quanto si prestano le nostre storie a diventare remake internazionali?
Ogni volta che hanno provato a fare remake dei nostri film, i risultati non sono stati ottimali. È più facile prendere…

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