Piera Detassis: «Meno film italiani in sala, ma più qualità»

Per la presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano - Premi David di Donatello è giunto il momento di riflettere sui trend della produzione nazionale e di selezionare maggiormente i film italiani destinati alla sala

Di seguito un estratto dell’intervento di Piera Detassis, presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello, pubblicato sul numero speciale di Box Office del 15-30 gennaio (n. 1-2), realizzato in occasione dei 25 anni della rivista. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.

«Che succede al cinema italiano? Bizzarre cose: del titolo più premiato e candidato È stata la mano di Dio non si sanno i risultati in sala, del titolo più snobbato dalla critica, Me contro Te, si sa che è un successone», scrive sulla rivista Box Office Piera Detassis, presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello. «Quasi tutti gli altri, si sa, faticano. E mentre nel poco margine consentito dal rapido mutare delle abitudini galoppano gli stranieri, noi, diciamolo con tutto l’amore, restiamo al palo, storditi, un po’ incerti sul dove andare, dove parare. Non è tutta colpa nostra, beninteso, ci sono sempre la pandemia, il timore e una certa confusione comunicativa su distanziamento, green e supergreen pass, così come è pur vero che prima del lockdown il nostro cinema dava ottimi segnali e gli autori non sono mancati all’appello della riapertura, da Moretti a Martone, da Mainetti a Milani fino alla sorpresa Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. L’azzardo in parte ha pagato, in molti casi no, in un box office da tempo di guerra. I dati generali sono chiari: gli spettatori più anziani se ne vanno, spaventati, il cinema di qualità s’annebbia con loro, i ragazzini corrono per il Milanese Imbruttito, fenomeno da social come Me contro Te, i soliti comedians ce la mettono tutta, fanno anche bene o benino, ma perché scapicollarsi al cinema quando si sa che quel film si vedrà a casa, comodamente, da lì a poco? Per la commedia, ripetitiva per facce e situazioni (adesso il tema è “come restare insieme tutta la vita e santificare le donne”, prima del grande buio era piuttosto “come lasciarsi allegramente”) il vero rischio è l’abitudine che scivola nell’indifferenza mentre a premiare è forse l’eccezionale, l’esperienza unica o fidelizzata, attesa o sospinta dai social, bella o brutta che sia.

E’ stata la mano di Dio (© Gianni Fiorito/Netflix)

Tutt’intorno, intanto, l’audiovisivo ferve, i set si sovrappongono, il tax credit in ascesa incrementa sempre più la produzione, ed è bene per chi ci lavora, male se non si troverà la soluzione in fase di uscita dove grande è l’affollamento. Bisognerà decidere con forza, all’origine, se si vuole raccontare per la sala o per le piattaforme, e la prima mi pare richieda selezione. Insomma, produrre meno diversificando e mirando meglio, perché l’atto di andare al cinema non è più una scelta facile e banale, men che mai d’impulso: chi ci va sa di voler vivere un’esperienza “plus”, uno spettacolo di storie e linguaggi straordinari, perfino di strabordante rumore e roboante comics, l’emozione immersiva, condivisa che non troverà a casa. Ciò che chiamiamo “production value” non è un solo un grazioso anglicismo, ma descrive bene quel che si vede e percepisce sullo schermo, la passione che hanno investito produttori e autori, l’incandescenza che t’arriva addosso e ti spettina i capelli, ti fa uscire dal cinema un po’ scosso, sommamente divertito, crudelmente turbato. Non indifferente. Le donne, che cominciano a prendersi spazio dalla scrittura alla regia e perfino la direzione della fotografia, devono darsi molto da fare in questo Paese che ancora le considera sotto esame. Ma gli autori maschi, per dovere o convinzione, cominciano a raccontare storie di donne protagoniste, uomini e padri fragili, tormentati, in forte crisi, pronti a stare dall’altra parte. Bene. Benino. Insomma, non è proprio la diversity a cui aspiravamo perché vogliamo altro, capace di volare oltre l’aneddotica del politicamente ri-corretto, mentre il nostro cinema sembra troppe volte distante dal Paese reale e incapace di intercettarne l’anima profonda, chiuso in un mondo tutto suo, timido rispetto alla verità di un’Italia complessa, diseguale (anche se le film commission, per altri versi meritorie, han cercato di renderla omogenea il più possibile, stessi sfondi, stesse città, stesse piazze), spaventata e rabbiosa, eppure resiliente. Certo non possiamo vivere di soli padri celibi alle prese con la novità della libertà femminile, e storie di coppie che, anche a scopo di moltiplicare cast attrattivi, s’incrociano in costante oscillazione sentimentale come burattini guidati dalla stessa mano, anedottica appunto. Vogliamo storie piene, rotonde, forti, anche con terrori e fantasmi, il grottesco e il drammatico in un unico impasto, non solo naturalismo stiracchiato. Desideriamo estremismi fatali, anche sbagliati e dissonanti, tutto ma non un cinema e una vita da mediano. Quello italiano è perlopiù un cinema di case, villette e condominio – e certamente il Covid in questo ha dato una mano – con poche ambientazioni che si rimbalzano di film in film, oppure, se molto d’autore troppo spesso succube dell’istinto irrefrenabile di puntare al rarefatto cosicché si noti l’ambizione, la voluta diversità. In tutto questo le storie, quelle che vogliamo sentirci raccontare, quelle in cui vogliamo riconoscerci e ritrovarci, non sono ancora abbastanza e nonostante questo il cinema italiano noi lo amiamo, perché crediamo nella sua singolare unicità, perché è la nostra voce e senza ci sentiremo afoni, orfani.

Freaks Out (© 01 Distribution)

Oggi attraversiamo una zona di turbolenza e squilibrio e a livello di sistema probabilmente per ritornare in bolla ci vorranno window valide per tutti e a difesa della sala, nonché la capacità di distinguere alla radice, scegliendo quale film nasce per la sala e quale per la piattaforma, perché è inutile imporre l’uscita al cinema a prodotti che andranno ad affollare sale già stremate. Fare ordine, insomma, e mi convince quanto ha dichiarato l’esercente Tomaso Quilleri a e-duesse.it: “Oggi quello che potrebbe essere un vantaggio per la sala, ovvero la grande quantità di prodotto a disposizione, si rivela un clamoroso autogol. Troppo prodotto inutile intasa i listini. (…) Per questo ritengo che il passaggio in sala non debba più essere obbligatorio per l’assegnazione dei finanziamenti pubblici. (…) In questo modo distributori ed esercenti possono tornare a filtrare il prodotto non all’altezza dell’esperienza cinematografica, contribuendo a risolvere l’annoso problema del sovraffollamento in certi periodi dell’anno». Convincente. Una decisione che forse servirebbe anche ad alimentare un nuovo Star System (perdonate il termine un po’ antico), l’affermarsi di protagonisti unici, ingaggianti, come si usa dire adesso, e appassionanti: ne abbiamo già tanti e sono la nostra ricchezza, diamo loro più chance. Vale anche la pena aggiungere, a questo punto, che marketing e comunicazione non possono più essere visti come antagonisti della creatività, ma anche che l’algoritmo non può vincere così, senza una vera resistenza. Sembra una banalità, ma molta riflessione va dedicata alla promozione dei film e del cinema (e della sala). Siamo tutti in affanno, alla rivista cartacea resta la funzione di apporre il sigillo di autorevolezza, mentre quel che un tempo era l’insostituibile passaparola oggi gira e si propaga sul digitale, tra siti e social, che vista la loro forza potrebbero osare di più e alzare il tiro narrativo e analitico. Può non far piacere, ma questo sistema integrato è ormai…

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