AUDIOVISIVO, PUNTO E A CAPO
Ebbene sì, ci risiamo. Parrebbe che l’audiovisivo, e quindi la televisione, sia tornato a essere un tema interessante (non si sa quanto al momento) per l’agenda politica. Il Rapporto prodotto dal ministero per lo Sviluppo economico in collaborazione con quello della Cultura e le conseguenti riflessioni (vedi articolo a pag. 28) fotografano lo stato di malessere – a tratti profondo – del settore e si propongono di metterci una pezza. Se non altro per cominciare a esportare contenuti. Ecco, questa è la bussola che ispira i promotori e che vedrà impegnati produttori e broadcaster nel mettere a punto e proporre a governo e parlamento le migliori norme possibili e auspicabili per porre il settore della produzione di contenuti tricolore nelle condizioni non dico di sopravanzare, ma almeno di competere con quelli dei cugini francesi, tedeschi e (volesse Dio) inglesi. Ma bisogna dire che anche gli spagnoli in tema di export ci mettono il sale sulla coda. Difficile sapere oggi che tipo di probabilità abbia questa iniziativa di raggiungere l’obiettivo, soprattutto di fronte a broacaster che negli ultimi anni hanno continuato a tagliare gli investimenti in fiction (e non solo). Per non parlare dell’allegra (si fa per dire) famiglia dei produttori, che si è vista ridurre commesse, limare budget, e complicarsi le procedure per tenere i rapporti con i propri committenti. Ma è facile prevedere che la strada sia tutta in salita: i primi – complice la crisi della raccolta adv – non cederanno tanto facilmente, i secondi non hanno le forze per imporsi e la politica (dichiarazioni del ministro Franceschini docent) ha sempre nutrito più un debole per il cinema al quale le sorti della tv sono legate a doppia mandata in questo Rapporto. Tuttavia, è confortante vedere come per una volta non ci si concentri su frequenze, par condicio, piattaforme digitali, tetti adv, governance del servizio pubblico, tecnicismi su come e chi debba (e si deve) pagare l’abbonamento Rai, e si parli su come potenziare piuttosto l’industria dei contenuti, cioè su come migliorare ciò che dà senso a tutto il resto: l’elemento essenziale, il collante, attraverso il quale tutto il resto si tiene. E porre alla base una ragione economica (l’export), può essere la chiave giusta per scardinare un macigno che è invece soprattutto editoriale, perché per aumentare gli investimenti bisogna realizzare prodotti in grado di soddisfare i gusti di una platea più grande, internazionale, quindi non è più tempo della retorica delle “memorie condivise”, del déjà-vu, quanto piuttosto dell’innovazione, del non già visto, di una creatività italiana che si guardi allo specchio e si ponga il problema di piacere non solo a se stessa, alla propria platea, ma anche agli altri, oltreconfine. Quindi, quel che viene posto è un quesito industriale, la cui risposta deve essere anche e soprattutto editoriale. Perché il “cosa” produrre avrebbe inevitabilmente ricadute automatiche sul “come” produrre. Serve che il settore televisivo si sieda al tavolo politico senza complessi di inferiorità né furbizie tattiche, gli stessi di chi è consapevole di rappresentare una componente importante dell’intrattenimento e dell’informazione, finanche della cultura di questo Paese, e serve un governo che abbia in sé la capacità di riconoscerlo come tale.
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