Cosa insegna questa crisi
Una domanda corre spontanea tra la platea degli addetti ai lavori: Rai, e per essa piuttosto Sipra, saprà far tesoro (ovvero, cassa) dell’incontrovertibile vantaggio che si è aggiudicata per il prossimo giugno, accaparrandosi la prestigiosa esclusiva – su tutte le piattaforme – degli Europei di calcio che si terranno tra la Polonia e l’Ucraina? A giudicare dalle incertezze e dalle sbavature fatte registrare in occasione di altri riusciti eventi della stagione, lo show di Fiorello e il Festival di Sanremo, qualche dubbio sorge legittimo, ma è anche vero che – quando vuole – il servizio pubblico sa apparecchiare degli eventi in grado di illuminare per settimane le sue reti, e che la competizione Uefa ha avuto tutto il tempo per essere pensata e “spesa” al meglio delle possibilità. Anche perché ormai gli eventi rappresentano l’unica, quasi assodata, boccata d’ossigeno in un mercato che sotto il profilo dei contenuti offre sempre meno certezze. La verità è che la generalizzata crisi economica, volenti o nolenti, sta cambiando i punti di vista e i connotati stessi del mercato. Tivù ne sta parlando ormai da mesi. A fronte, infatti, di una possibile – ma non è dato sapere quanto probabile – ripresa dei broadcaster europei, ipotizzata da PricewaterhouseCoopers per il 2015 (1,9mila mld di dollari contro i 1,4mila mld del 2010), le televisioni stanno riformulando i loro piani industriali e reimpostando la dislocazione degli investimenti, provocando scossoni tra i rispettivi partner – produttori esterni in primis – e i palinsesti. Diamoci ancora al massimo un paio d’anni, e poi nulla sarà più come prima. Se sia un bene o un male è difficile stabilirlo a priori. Certo, fin da prima di questo diluvio, troppi programmi della tv italiana mostravano tutti i segni del tempo che passava: rattoppati e siliconati qua e là, ma inesorabilmente decadenti, troppo costosi e autoreferenziali. Oggi, il fatto di dover intervenire sui budget, sopra e sotto la linea, sta costringendo a rivedere le formule produttive, modificando la fase di scrittura (sul numero scorso di Tivù gli autori hanno già espresso quale potrebbe essere in tal senso il loro contributo, mentre altre categorie saranno interpellate nei mesi a venire) e le modalità di ingaggio dei talenti (abbiamo già parlato dell’eventuale commisurazione dei compensi ai risultati e, su questo numero, dell’auspicabile ridimensionamento dei cachet nella fiction). Da più parti si auspica inoltre che gli stessi tagli impongano un nuovo punto di vista nel rapporto broadcaster-produttori indipendenti: i primi forniscono la linea editoriale e supervisionano con un coinvolgimento minimo, se non inesistente, la fase realizzativa; i secondi eseguono in toto e si assumono l’onere o il merito della mancata riuscita o meno di un programma. Insomma, inserire un po’ di responsabilità di impresa non guasterebbe, anche perché servirebbe a praticare una selezione naturale tra le tante società, senz’arte né parte, che pretendono con i loro show di parlare al Paese. Quindi, se è vero – come direbbe qualche saggio – che non tutto il male vien per nuocere, perché si sta forzando la mano a un mezzo conservatore e conservativo come la tv, abituato a crogiolarsi nel grasso degli investimenti adv che colava sui piccoli schermi fino a soli tre anni fa, rode solo che proprio nel momento in cui la tecnologia consentirebbe di creare fantasmagorici canali con contenuti d’avanguardia destinati a piattaforme digitali intercambiabili, chi ha le capacità per farlo non abbia gli investimenti necessari a finanziarli. E che in alternativa a un mercato pubblicitario diventato – probabilmente a ragione – prudente e guardingo, purtroppo non si intravedano all’orizzonte business model sostitutivi.
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