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LA RAI NON È UN MARCIAPIEDE

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30 Aprile 2015
in Senza categoria
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LA RAI NON È UN MARCIAPIEDE

Si sono susseguite in queste settimane articolesse, corsivi e fondi, nonché editoriali, invettive e panegirici sulla riforma della Rai maturata in seno al governo Renzi. Cosa aggiungere? Poco o nulla, perché su come dovrebbe essere il servizio pubblico tutti in Italia sembrano avere un’idea precisa, ovviamente diversa l’una dall’altra, che nella fattispecie contempla di volta in volta un diverso significato per l’aggettivo “pubblico”. Perché se una cosa è di tutti in generale, nella mentalità italiana vuol dire che non è di nessuno in particolare, per cui chiunque appena entra nella sua orbita si sente autorizzato a usarla in base alle proprie necessità. Tanto nessuno gliene chiederà conto. È un po’, per dirla in soldoni, quanto succede con i marciapiedi delle nostre città, che sono di tutti, pubblici appunto, e in quanto tali in troppi si sentono autorizzati a imbrattarli dei bisogni dei loro cani, senza accennare un plissé. Hai voglia di parlare di buona educazione e senso civico… Scusandomi del confronto ingeneroso, e tornando alla questione iniziale, viene da chiedersi che senso abbia, come fa il governo, nel tentativo di puntellare la sua supposta riforma, appellarsi a un generico “compito di comunicare l’Italia” che dovrebbe assolvere la Rai, scomodando addirittura un astruso concetto di “Tv Nazione”. Non ci si trasforma certo da semplice broadcaster in media company, come scrivono gli estensori di Palazzo Chigi, cambiando la vecchia carica di dg in quella di amministratore delegato; né rivedere le sfumature nei metodi di composizione della governance la convertirà – come sulla carta si vorrebbe – in un’azienda in cui siano le professionalità a vincere rispetto all’appartenenza partitica. Ditemi, c’è qualcuno che abbia avuto a che fare con Viale Mazzini disposto minimamente a credere che ciò possa scalfirne l’impianto industriale? Basti pensare a come ha reagito la corporazione interna dei giornalisti appena si è cominciato a parlare di riformare l’informazione… E questo potrebbe valere anche in altri ambiti interni alla società partecipata dal Tesoro. La verità è che le aziende sono fatte dalle persone che ci lavorano, e quando ci si aggira per i corridoi Rai e si scopre (a volte con rinnovato stupore) che in un habitat in cui ha imperato per oltre mezzo secolo una selezione delle risorse umane in base all’appartenenza politica o a una certa lobby, operano anche professionalità di alto livello. Si ha dunque l’obbligo morale di chiedersi che cosa aiuterebbe queste persone, questi talenti a poter esprimere al meglio le loro capacità a servizio di quella collettività a cui Rai è obbligata costituzionalmente a ispirarsi. E non sarà certo un ad con maggiori poteri sulle macroquestioni (per quanto sia un aspetto importante) a stravolgere il modus operandi di tutti i circa 13mila dipendenti, quando sarebbe piuttosto necessario intervenire anche sulle microquestioni, sulla quotidianità. Che sono la parte essenziale, come ci hanno dimostrato le storie di Adriano Olivetti e Michele Ferrero, fulgidi esempi di come per costruire un’azienda sana bisogna agire su chi ci lavora. Ma quelli erano imprenditori, direte voi. Appunto! Questo per dire che la Rai necessita oggi più che mai di un tentativo di privatizzazione, seppur parziale, il solo in grado di sanarne il tessuto interno e di darle un impianto concorrenziale e competitivo che ne valorizzi il talento e i talenti. Cosa che invece la riforma Renzi esclude, quanto meno nell’aspetto gestionale, e che altri ridicolizzano considerandolo un banale “item padano”, preferendo alla tempesta lo stallo. Contenti loro…

© RIPRODUZIONE RISERVATA
In caso di citazione si prega di citare e linkare www.e-duesse.it
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