NON PERDIAMO LA RIVOLUZIONE
Forse ce ne stiamo accorgendo solo a tratti e a scatti, ma la televisione che abbiamo sempre conosciuto sta cambiando sotto i nostri occhi senza che noi si riesca a vederne costantemente il quadro d’insieme, scorgendo qua e là solo pezzi sparsi di un unico, grande puzzle. Offerte digitale terrestre, satellite, on demand e streaming, e poi tutte le variabili sviluppatesi in rete, nelle modalità mobile o da casa, sono lì a dimostrare che l’evoluzione è in atto con una tv che, al contrario di chi la dà un giorno sì e l’altro pure per spacciata, sta invece pervadendo l’universo comunicativo: siamo invasi da piccoli (pc e tablet) e piccolissimi (smartphone) schermi che rimandano a getto continuo offerte di intrattenimento e di informazione visual e mobile. Intrattenimento e informazione che in buona parte dei casi sono unicamente e semplicemente puri prodotti televisivi. Di questo si sono resi conto anche i giganti della Silicon Valley che si stanno avventurando nel fantastico mondo della tv, con Google, Yahoo!, Amazon e Apple decisi a fare sul serio approntando allo stesso tempo device proprietari e produzioni originali. Ciò per dire che la tv come l’abbiamo sempre conosciuta non muore, ma si trasforma: da lineare diventa verticale, si parcellizza su diverse piattaforme e altri device. Mentre i contenuti si polarizzano, tra prodotti premium e commodity, tra grandi brand – la cui awareness può essere spesa su più media – e altri la cui spinta propulsiva si esaurisce o quasi con la semplice messa in onda. La televisione sta vivendo una grande, fantastica, avventura della cui meraviglia in Italia non ci si accorge a causa della crisi pubblicitaria e dello squilibrio concorrenziale che ha caratterizzato per lunghi anni il mercato. Siamo rattrappiti sulle, per quanto sacrosante, spending review. Nuotiamo in uno stagno in cui i manager brigano per economizzare sul prodotto pur di non farsi tagliare i lucrosi stipendi, ma non si sforzano di andare a guardare cosa sta accadendo oltre la soglia di casa, foss’anche solo per curiosità o per vedere se anche loro possono essere della partita. Con una metafora, si potrebbe dire che se si giocassero i Mondiali della tivù, l’Italia non entrerebbe neanche nelle fasi eliminatorie. Non toccherebbe palla. Rimarrebbe in panchina. E la sensazione si intensifica se si pensa che i recenti Screenings di Los Angeles si sono giocati su una proposta di serialità molto più ricca e articolata delle precedenti. Complice l’effetto Netflix-House of Cards, le prassi produttive stanno ragionando sempre più su serie più lunghe e con tempi di realizzazione più corti, in modo da non far disperdere – tra un’edizione e l’altra – l’awareness del titolo che viene amplificata a livello planetario sui social media. Mettendo insieme tutto questo ci si rende conto che i problemi del settore esulano ormai dall’eterno ping pong Rai-Mediaset, con interferenze ora di Sky ora di La7. Non resta che sperare che accada qualcosa di importante e di traumatico: la vendita di una rete Rai, l’avvento in Italia di un broadcaster del calibro di Disney o Warner in grado di competere alla pari con i player generalisti e satellitari. Abbiamo bisogno che qualcuno costringa i nostri a uscire dall’angolo in cui si sono cacciati, spaventati come sono dalla crisi, costringendoli a riselezionare i manager migliori e i partner più innovativi. C’è bisogno di riformulare dalle fondamenta i modelli di business (uno per tutti: le strutture degli operatori sono troppo pesanti, soprattutto quella Rai), industriali e produttivi, di rivedere le strategie marketing e gli schemi di raccolta pubblicitaria. Negli ultimi anni il mercato ha inseguito affannosamente il tumulto tecnologico, adeguandosi alla meno peggio, ora potrebbero esserci le competenze e i margini per precederlo. Resta solo da sapere se si avrà sufficiente coraggio per farlo.
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