Spacchettiamo la tv!
In questo numero di Tivù c’è più di un articolo che potrebbe fornire qualche serio spunto di riflessione a chi, in questa difficile fase per il settore tv e dell’advertising, così come per il 99% dei comparti industriali e non solo, ha l’ingrato compito di spingere le leve decisionali per stabilire cosa produrre, cosa acquistare, cosa trasmettere e dove tagliare. Ebbene, dall’intervista di copertina a Virginia Mouseler, con The Wit osservatrice imparziale del rutilante mondo dei format a livello planetario e proprio per questo protagonista fissa dei Mip, si deduce che “piccolo è bello”, ovvero che ad avere la meglio in questo momento sono contenuti che prevedano costi medio-bassi e contengano una forte componente innovativa (vedi certi titoli made in Israele piuttosto che in Nord Europa). A dare poi il senso delle difficoltà in cui versano i broadcaster, Mouseler sottolinea come nel 2011 i palinsesti abbiano previsto solo un magro 1% di nuovi titoli, rispetto a una media annua del 9% registratasi a partire dal 2008. Che dire? Non siamo messi bene, non lo sono le reti, altrettanto quanto gli inserzionisti e il pubblico. Quel che è certo è che ormai seguire i soliti mercati (peraltro con sempre minore convinzione, a giudicare dalle ultime tiepide edizioni delle kermesse cannensi) non basta, perché si ha come l’impressione che i mega-pensatoi dei programmi si siano incartati, avvitandosi su se stessi e sui soliti titoli e spunti, riproposti in infinite declinazioni. Come bisognerebbe dare un taglio alle rigide procedure d’acquisto – a pacchetti – che ingolfano i palinsesti, facendo arrivare uno o due titoli buoni in abbinata obbligatoria a decine di scarti di magazzino. È quanto denuncia Antonio Bruni, ex manager Rai di lungo corso, che propone piuttosto di porre maggiore attenzione ai festival, dove competono le eccellenze internazionali e i cui vincitori, rarissimamente – chissà perché – approdano sui piccoli schermi italiani. Disattenzione, miopia, incompetenza? Chiamatela come volete, ma certamente non è nulla di buono. Soprattutto se si prende in considerazione un’altra riflessione a firma del vicedirettore di Rete 4, Carlo Panzeri, in cui si sostiene che l’attuale target anziano è meno passivo di quanto si creda, e che quindi – aggiungiamo noi – a questo punto la corsa di inserzionisti ed emittenti al sempre più inafferrabile pubblico giovane e giovanissimo potrebbe essere meno ansiogena. Questo per dire che si stanno spostando paletti e riferimenti, che non sono solo economici, ma editoriali, culturali e sociali, e che in quanto medium invasivo e pervasivo la televisione deve essere in grado di compendiarli tutti, altrimenti il rischio è l’implosione. Le regole si riscrivono velocemente. Quello che veniva considerato vero ieri non lo è più nell’arco di poche ore, settimane o mesi. Se prima l’imperativo era presidiare, oggi si punta a primeggiare. Come sostengono due economisti dei media da noi sentiti, Daniele Doglio e Augusto Preta, la crisi economica starebbe dimostrando l’insostenibilità strategica delle reti Dtt Rai (troppe) e pay di Mediaset (troppo costose). Che fare? Come muoversi? Se nella pay è facile a dirsi, dietro l’esempio dei cable Usa che si pongono come obiettivo quello di dare al proprio pubblico più e meglio di quanto si aspetti; per le free è più difficile, visto l’alto tasso di competizione, ma non impossibile: reti come Rai4, Iris, Cielo e Real Time stanno infatti a dimostrare che anche in Italia una buona tv è possibile. Basta solo saperla immaginare.
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