La lenta (colpevole) agonia delle locali

Ormai è risaputo, le emittenti locali sono in crisi nera. Per avere una minima misura della portata del fenomeno, è sufficiente digitare su Google le parole “crisi emittenti locali”: sono centinaia le notizie relative a fallimenti, chiusure, contratti di solidarietà, cassa integrazione, messa in mobilità. Delle circa 600 attive sul nostro territorio nazionale, a ragion veduta ne sopravviveranno probabilmente meno della metà. Con 5mila posti di lavoro a loro carico (più l’indotto), è un settore che si spegne per colpa – a sentire i più – di una spending review che ha tagliato i contributi statali fino a 98mln di euro nel 2011, a 78mln nel 2012 e a 58mln nel 2013. In più, la cessione da parte del governo delle frequenze tv 61-69 alla banda larga per complessivi 4mld, non ha fruttato alle emittenti il previsto indennizzo di 400mln, bensì solo 170mln. Ci si aggiunga il tracollo della raccolta pubblicitaria degli ultimi cinque anni, e il gioco è fatto. Di chi è la colpa? Basta fare un passo indietro di pochi anni per ricordarsi delle marce trionfali che si levavano in virtù di un Dtt che avrebbe triplicato il loro spazio di trasmissione. Seppur non si avessero ancora idee chiare su cosa metterci dentro. Probabilmente si sperava che lo Stato si sarebbe adeguato, moltiplicando le risorse a loro beneficio. Così non è stato, anzi. E un comparto che si reggeva su un equilibrio drogato dai soldi pubblici sta saltando per aria. Si può veramente dire, come fanno alcuni, che nella fattispecie si stia consumando un attentato alla pluralità dell’informazione? No, non proprio. Qualcuno direbbe che si tratta piuttosto di pura selezione naturale: ogni impresa che possa definirsi tale deve produrre profitti, e non perdite da ripianare con i soldi delle tasse degli italiani. E lo stesso dicasi per le testate cartacee che vivono a sbafo di noi tutti… Detto ciò, la storia dell’emittenza locale italiana – posta nella giusta prospettiva – non ha nulla da invidiare all’attuale dei canali satellitari e di quelli nativi digitali. È stata un generoso terreno di scouting, a volte anche di sperimentazione, e ha permesso a tantissime pmi che non potevano permettersi campagne pubblicitarie nazionali di avere visibilità almeno all’interno delle loro aree di provenienza. Diverse si sono distinte nel riuscire a fare un genere di informazione di gran lunga più plurale e completo delle sedi regionali della Rai. Il resto ha preferito darsi in via esclusiva a oroscopi, aste, hot line, televendite e quant’altro, senza imporsi una ragione d’esistere che non fosse quella di racimolare i finanziamenti pubblici da mettere, a volte, a disposizione del politico locale di turno. E purtroppo quest’ultime, in virtù di un criterio di assegnazione cieco e sordo, hanno continuato a essere foraggiate tanto quanto le prime. Senza che le associazioni di categoria cercassero di imporre dei distinguo. Il pasticcio delle frequenze e la collocazione Lcn, seguiti all’avvento del Dtt, con i costi esorbitanti che esso ha comportato e le politiche a favore dei broadcaster nazionali, hanno fatto il resto. Un legislatore attento, quello che dovrebbe spuntare dalle elezioni di fine febbraio, potrebbe – tra le altre cose – occuparsi anche di questa ecatombe. Accelerando l’agonia degli operatori posticci e supportando, quando possibile, le aziende più sane mettendole nelle condizioni di operare al meglio, senza che altri avvelenino loro i pozzi con le solite avidità. Stiamo parlando di un settore che probabilmente ha ancora molte cose da dire e da fare, ma prima occorre che molti facciano un passo indietro e qualcuno ne faccia più di uno in avanti. E non è che sia rimasto tanto tempo per farlo…
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