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È concepibile che in un Paese moderno esista un audiovisivo di serie A e uno di serie B? È credibile che il cinema, tutto il cinema, sia cultura mentre la televisione, tutta la televisione, non si sa bene cosa sia? Di questo ragionamento, a dir poco provinciale e novecentesco, è figlia l’impostazione che vede dal 2007 il cinema italiano beneficiare legittimamente di sgravi fiscali (tax credit e tax shelter), mentre la produzione tv – quella che per antonomasia viene tacciata di formare i gusti del Paese – essere considerata qualcosa di non meritevole di altrettanta attenzione, anche quando entrambi raccontano quasi le stesse storie (la fiction) con gli stessi attori, autori, registi e produttori, e seguono i medesimi processi industriali. Mettendo da parte che forse, a causa della crisi, anche il nostro cinema potrebbe vedersi purtroppo ridimensionato questo privilegio, ci consola solo il fatto che tale arretratezza non sia solo italiana. Tuttavia, altre nazioni – come l’Inghilterra – stanno correndo ai ripari (vedi art. a pag. 40) allargando la Film Tax Relief, ovvero gli incentivi fiscali alla cinematografia, alla fiction, all’animazione, ai documentari e ai videogame, comprendendo anche i contenuti video destinati a internet, mentre da noi si amplia il divario con un decreto che estende a tutte le tv (non solo quindi al servizio pubblico che ha un preciso ruolo in virtù del canone che percepisce) l’obbligo di acquistare e programmare nuovo cinema italiano in determinate fasce orarie. Siamo alle solite, il cinema è cultura, e perciò va supportato, la tv – a quanto pare – no. Sia chiaro, qui non si tratta di prendersela col cinema, inscenando una patetica schermaglia tra cugini poveri, ma di scardinare impostazioni legislative – e, mi si passi il termine, culturali – che non hanno ragione di esistere nell’era della comunicazione online. E se è vero, come è vero, che l’investimento di un euro in produzione sul territorio italiano ha un ritorno di 3,25 euro (in Uk per ogni sterlina di sgravio il ritorno è di 12 sterline sul Pil), perché non moltiplicare questo effetto positivo sull’economia incentivando fiscalmente anche le produzioni tv sul territorio nazionale? La verità è che l’audiovisivo agli occhi del legislatore non ha mai avuto dignità di industria, come lo è altrove, il tutto aggravato dal fatto che le sue varie componenti si sono ogni volta presentate disunite alla meta, con ognuna che tira dalla sua una coperta da sempre troppo corta. Eppure non è più tempo di battitori liberi: occorre fare blocco affinché l’intero comparto possa ottenere quei riconoscimenti che prima di tutto farebbero bene all’economia del Paese e poi, ma non da ultimo, a chi ci lavora. Prima però il cinema italiano dovrà abbandonare il suo complesso di superiorità, e il piccolo schermo la sua sindrome di inferiorità rispetto al grande schermo, altrimenti non potranno dialogare e parlare con una voce sola per spiegare che un settore che dà lavoro a decine di migliaia di persone può e deve pretendere di essere ascoltato. Soprattutto per dire che anche loro, forse meglio di certi foraggiatissimi giornali, di partito e non, sono in grado raccontare – nel bene e nel male – questo Paese.
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